Call for papers: Carte Semiotiche – Annali 8, “Fotografia analogica e fotografia digitale: un riesame”

Carte Semiotiche è una rivista di semiotica e teoria dell’immagine a carattere internazionale e interdisciplinare, incentrata sulle immagini e i loro modi di produzione del senso. La rivista vuole essere un luogo di riflessione per accogliere e incoraggiare la pluralità di punti di vista sulla dimensione visiva e sensibile dei linguaggi e degli oggetti culturali.

I suoi volumi a carattere monografico, ad uscita annuale, sviluppano ognuno un focus teorico che convoglia distinte tradizioni accademiche e ospita i contributi sia di giovani ricercatori che di studiosi affermati. Carte Semiotiche privilegia l’orientamento al testo e alla dimensione analitica della ricerca, nella convinzione che l’analisi testuale sia lo strumento più utile per il confronto tra i diversi approcci disciplinari, oltre che per un’elaborazione teorica efficace e rispettosa della singolarità e densità degli oggetti con cui si confronta.

CALL FOR PAPERS CARTE SEMIOTICHE, ANNALI 8

FOTOGRAFIA ANALOGICA E FOTOGRAFIA DIGITALE: UN RIESAME

a cura di Dario Mangano

Quando la fotografia digitale ha cominciato ad affermarsi, il dibattito intorno a questa cosiddetta rivoluzione, sia in semiotica sia al di fuori di questo ambito disciplinare, ha preso subito una piega molto precisa, focalizzandosi quasi unicamente su un aspetto: il problema della riproduzione della realtà, e dunque del referente (Dubois 1983, Marra 2006, Ritchin 2009, Scheffer 2006, Smargiassi 2015). Per moltissimi commentatori ciò che veniva messo drammaticamente in discussione era il valore dell’immagine fotografica, quella “essenza” che Barthes ne La camera chiara aveva riconosciuto nell’ “è stato” che solo una riproduzione fotochimica sembrava assicurare. Sostituire l’elettronica alla chimica, i bit ai granuli di nitrato d’argento, sarebbe stata la fine della fotografia in quanto testimonianza e con essa della realtà, disciolta come tutto il resto nel cyberspazio. O almeno, così sostenevano i (tanti) apocalittici preconizzando ancora una volta la morte di un’arte.

Le cose però non sono andate affatto così. Non solo la fotografia è ancora lì e, anzi, le immagini si moltiplicano esponenzialmente insieme alle macchine fotografiche e agli appassionati che le comprano e le usano, ma anche i discorsi che la riguardano lo fanno, come testimonia l’enorme impulso alla produzione editoriale di questi ultii anni sia on-line sia off-line. Peraltro, alle fotografie si continua a credere (o a non farlo), e non per stolida ingenuità, semmai per un’accresciuta competenza nel discernere il posticcio (Bajac 2010, Gunthert 2016). Ritocchi, rielaborazioni e infingimenti d’ogni genere vengono smascherati ben più rapidamente di quanto non si facesse agli albori della fotografia in cui qualche mattacchione, con una semplice doppia esposizione, diceva di avere la prova dell’esistenza dei fantasmi – arrivando a prendere per i fondelli, pare, niente meno che la gentile consorte di Abramo Lincoln.

Trauma superato e integrati accontentati insomma, se non fosse che il lungo percorso di autoanalisi ha fatto dimenticare che tra analogico e digitale la questione in ballo non è affatto solo quella della natura del segno fotografico e del suo rapporto con il referente (Dondero 2020, Mangano 2018, Pezzini 2008), come ci dimostra proprio quella realtà che sembra indifferente a ogni tentativo di riduzione. Chiunque si interessi di fotografia sa benissimo che non soltanto l’analogico non è affatto scomparso ma che, dopo un periodo di relativo silenzio, è tornato rinvigorito dal confronto con quel digitale che, nel frattempo, è diventato dominante. Pochi semplici fatti: nel 2018 la Kodak ha rimesso in moto la produzione della Ektakrome, la celebre pellicola diapositiva divenuta un’icona, annunciando alla fine dell’anno successivo un +21% dell’intero mercato delle pellicole. Ben prima di questo, un piccolo gruppetto di appassionati, a metà fra il movimento carbonaro e la setta religiosa, aveva dato vita alla Lomographic Society che si proponeva di rivoluzionare il modo di intendere la fotografia a partire dal nome: lomografia al posto di fotografia. Un culto dell’analogico che all’immancabile decalogo di comandamenti abbinava un per nulla analogico sito web, ben attrezzato per l’e-commerce di apparecchi lo-fi e, ovviamente, pellicole d’ogni genere, preferibilmente d’epoca e quindi ampiamente deteriorate. Un affare da centinaia di milioni di dollari che aveva saputo cogliere un aspetto fondamentale dell’analogico, ovvero la sua estetica basata sull’imperfezione (Chéroux 2003). Fotografie mosse, sovraesposte o sottoesposte, lampi di luce, colori improbabili, inquadrature strampalate e tutto l’ampio campionario dei tipici errori dell’era fotochimica che i cervelli elettronici delle macchine digitali avevano fatto scomparire con la metodicità dell’ingénieur, per qualche motivo erano diventate di colpo interessanti (Mangano 2010). E non avrebbero smesso farlo fino a oggi. Vintage? Certo, ma non esattamente lo stesso tipo di ritorno al passato a cui ci ha abituato la moda (Panosetti, Pozzato 2013). Nulla a che vedere con la riattualizzazione da passerella che viene superata nel giro di un semestre dalla nuova collezione, perché all’esperimento modaiolo della lomografia molto altro è seguito. Pensiamo a Polaroid, che ha ripreso a produrre le sue pellicole a sviluppo istantaneo e gli apparecchi per usarle (l’iniziativa è stata chiamata non a caso Impossibile Project), alla crescente abitudine di stampare le immagini, ma anche a qualcosa di meno immediato come il design delle macchine fotografiche, soprattutto quelle digitali, sempre meno popolate da tasti e display multifunzione e sempre più da ghiere, leve, rotelle e interruttori che rimandano a una gestualità anch’essa tutta analogica (Mangano 2018). Per non dire dell’esplosione di siti, blog e pagine social in cui si discetta a più non posso di cultura analogica e digitale, o degli infiniti tutorial che insegnano a fare ciò che un tempo qualunque vero appassionato sapeva fare perfettamente: dal caricare una pellicola allo svilupparla da sé.

Pian piano insomma è diventato palese quello che si sarebbe anche potuto immaginare, ovvero che analogico e digitale, ancorché essere due forme tecnologiche, sono due forme semiotiche, due effetti di senso, ma anche in qualche modo due linguaggi che come tali sono traducibili l’uno nell’altro. Se da un lato è perfettamente possibile riprodurre l’analogico con una tecnologia  digitale – pensiamo a tutti i software che lo simulano, ora alterando le immagini ora riproducendo gesti e procedure come il caricare il “rullino” o il dover attendere perché si sviluppi – dall’altro la fotografia analogica finisce prima o poi per essere digitalizza, per un ultimo ritocco in Photoshop o semplicemente per poter essere pubblicata su Instagram. Si creano così modi di produzione complessi, ricchi di passaggi, in cui si intrecciano tecnologie e tecniche e in cui ciò che si costruisce è, a ben pensare, il senso del fare fotografico contemporaneo. Da qui la possibilità di ritornare sulla questione analogico/digitale da un punto di vista diverso, che lasci da parte ogni valutazione ontologica su cosa sia la fotografia per articolare invece una riflessione su come funzioni concretamente.

Per questo motivo quello che ci aspettiamo dai contributi a questo volume è l’analisi di fenomeni che hanno a che fare con il mondo della fotografia. Fatti e artefatti che, se osservati da vicino e con la giusta attenzione, possano aiutarci a comprendere le tensioni che lo agitano, cui l’opposizione analogico/digitale, opportunamente pensata in chiave semiotica, sembra offrire notevoli possibilità di articolazione. Possiamo pensare a molti possibili oggetti d’analisi, e dunque così, a semplice titolo d’esempio, eccone alcuni:

  • dispositivi tecnici come macchine fotografiche, apparecchi per la stampa e in generale il vasto mondo dell’hardware, sempre in espansione, che diventa uno straordinario testimone delle tendenze in atto e dei modi di produzione. Il fotografo è infatti sempre un ibrido, per usare la fortunata definizione di Latour, un attante in parte umano e in parte non umano che deve le sue capacità (e quindi anche il suo modo di vedere il mondo) alla relazione con uno o più oggetti
  • i discorsi sulla fotografia, intrattenuti nei luoghi più diversi e nei modi più diversi: dalle riviste ai blog, dalle esposizioni ai tutorial di YouTube, passando ovviamente per la comunicazione commerciale e per la pubblicità, nonché per ogni altro prodotto culturale giochi un ruolo nella costruzione dell’immaginario del fotografo contemporaneo
  • i discorsi della fotografia, che includono ovviamente tutti gli aspetti legati all’estetica, o meglio alle estetiche e alla loro trasformazione, agli stili che si sono determinati e al modo in cui sono emersi, e ancora al modo in cui le immagini fotografiche vengono usate, per esempio sui giornali, ma anche sui social network come Facebook o Instagram
  • le questioni legate alla fruizione del testo fotografico, alla sua continua rimediazione e traduzione, ma anche alle diverse modalità con cui viene esibito ed esposto. Di particolare interesse appaiono infatti i processi di rimediazione legati agli allestimenti sia fisici, legati a musei della fotografia, esposizioni temporanee, istallazioni, performance artistiche ecc. sia vituali, come accade nei siti web di alcuni artisti
  • di particolare interesse, quantomeno nel campo semiotico, sembrano essere anche i fenomeni passionali legati alla fotografia che, oltre a essere considerata essa stessa una passione, ne determina continuamente.

La redazione di Carte Semiotiche vi invita ad inviare proposte di contributo in italiano, inglese, francese o spagnolo (max. 2000 caratteri spazi inclusi o 500 parole) corredate di un breve profilo biografico (max. 10  righe) entro il  15 SETTEMBRE 2021 ai seguenti indirizzi: dario.mangano@unipa.it / cartesemiotiche@gmail.com

Contributi in italiano, inglese, francese, spagnolo

Indicazioni operative

Lunghezza abstract: max. 2000 caratteri spazi inclusi (circa 500 parole)

L’abstract dovrà riportare le indicazioni di una bibliografia minima di riferimento. Lunghezza articoli: max. 40.000 caratteri spazi inclusi (circa 8000 parole)

Immagini: b/n in corpo testo e a colori in file separato (jpeg, png, risoluzione almeno 1500 pixel nel lato maggiore)

Termine consegna abstract: (15 SETTEMBRE 2021)

Data comunicazione accettazione proposte: (30 SETTEMBRE 2021) Termine consegna contributi selezionati: (15 GENNAIO 2022)

Fine del processo di revisione: (15 MARZO 2022) Data prevista di uscita del volume: (MAGGIO 2022)


Carte Semiotiche is an international and interdisciplinary journal of semiotics and image theory dedicated to the exploration of the production of sense in visual objects. The journal welcomes and encourages a plurality of points of view on the visuality of cultural objects. In the belief that textual analysis is a crucial tool for the comparison between different disciplinary approaches, Carte Semiotiche favors orientation towards textuality and the analytical dimension of research. Each annual monographic volume focuses on a specific topic open to different approaches.

RE-EXAMINATION ON PHOTOGRAPHY

Edited by Dario Mangano

With the affirmation of digital photography, the debate around this so-called “revolution”, both in semiotics and outside this discipline, immediately took a very precise turn, focusing almost exclusively on the problem of the reproduction of reality, and therefore of the referent (Dubois 1983, Marra 2006, Ritchin 2009, Scheffer 2006, Smargiassi 2015). For many scholars, what was dramatically called into question was the value of the photographic image, that “essence” that Barthes in La chambre clair had called a “that-has-been” (ça-a-été) and that only photochemical reproduction seemed to ensure. Replacing chemistry with electronics, grains of silver nitrate with bits, seemed to announce the end of photography as evidence and, with it, of the concept of “reality”, dissolved like everything else in cyberspace. At least, that was claimed by (many) apocalyptics – as Umberto Eco used to call them -, once again predicting the death of an art form.

However, things have not turned out that way at all. Not only photography is still alive and, indeed, images are multiplying exponentially along with the cameras and the enthusiasts who buy and use them, but the discourse about it also increased, as witnessed by the enormous boost in editorial production in recent years both online and offline.

Moreover, photographs continue to be believed in (or not), and not out of foolish naivety, but rather out of an increased competence in discerning the fakes (Bajac 2010, Gunthert 2016). Retouching and reworking of all kinds are unmasked much more quickly than in the early days of photography, when some crackpot claimed to proof the existence of ghosts by a simple double exposure – going so far as to mock, it seems, none other than Abraham Lincoln’s wife.

In other words, the trauma seemed to be overcome and the integrated – again, in Eco’s words – are satisfied, were it not for the fact that the long process of self-analysis made us forget that the issue at stake between analogue and digital is in no way limited to the nature of the photographic sign and its relationship with the referent (Dondero 2020, Mangano 2018, Pezzini 2008). Anyone interested in photography knows very well that not only analogue photography has not disappeared but, after a period of relative silence, it has been even reinvigorated by the comparison with the now dominant digital photography. A few simple facts: in 2018, Kodak restarted production of the Ektakrome, the famous slide film that had become an icon, announcing at the end of the following year a 21% increase in the entire film market. Quite upstream of this, a small group of enthusiasts, somewhere between a revolutionary movement and a religious sect, had created the Lomographic Society, which set out to revolutionize the way photography was understood, starting with its name: lomography instead of photography. The Lomographic Society was a cult of analogue photography, which, in addition to the inevitable decalogue of commandments, had a website that was not at all analogue, but well equipped for e-commerce of lo-fi devices and, of course, films of all kinds, preferably truly vintage and therefore largely deteriorated. A hundred of millions dollar business that had captured a fundamental aspect of the analogue technique, namely its aesthetics based on imperfection (Chéroux 2003).

Shaky, overexposed or underexposed photographs, flashes of light, improbable colors, odd shots and the whole wide range of typical errors of the photochemical era that the electronic brains of digital cameras had made disappear with the rigor of the ingénieur, had for some reason suddenly become interesting (Mangano 2010). And they would not stop doing so until today. Vintage? Sure, but not exactly the kind of return to the past we got used to in contemporary fashion (Panosetti, Pozzato 2013). In fact, much has happened after the fashionable experiment of lomography. Polaroid, for instance, resumed production of its instant-development films and the equipment to use them (the initiative was not by chance called the Impossible Project), the printing of the shots is increasing, and, in a less immediate way, the design of cameras, especially digital ones, is less populated by buttons and multifunctional displays and more and more by dials, levers, wheels and switches that refer to entirely analogue gestures (Mangano 2018). Not to mention the explosion of websites, blogs and social pages that discuss analogue and digital culture in depth, or the endless tutorials teaching how to do what any true enthusiast once knew how to do perfectly: from loading a film to developing it by themselves.

It has become evident that analogue and digital devices, although being two technological forms, are two semiotic forms as well, two ways of producing meaning, but also in some way two languages which, as such, can be translated into each other. On the one hand, it is perfectly possible to reproduce the analogue forms with a digital technology (think of all the software that simulates it, now altering the images, now reproducing gestures and procedures such as loading the ‘film’ or having to wait for it to develop). On the other hand, the analogue photograph sooner or later ends up being digitalized, for a final touch-up in Photoshop or simply to be published on Instagram. This creates complex modes of production, full of steps, in which technologies and techniques are intertwined, and through which the meaning of contemporary photography is constructed. Hence the possibility of returning to the analog/digital question from a different point of view, one that leaves aside any ontological assessment of what photography is and rather articulates a reflection on how it actually works.

For this reason, what we expect from the contributions to this volume is the analysis of phenomena that have to do with the world of photography. Facts and artefacts that, if observed closely and accurately, can disclose their tensions, since the analogue/digital opposition, considered in a semiotic perspective, seems to offer considerable possibilities of articulation.

Among the possible objects of analysis:

  • Technical devices such as cameras, printing equipment and the vast and ever-expanding world of hardware, which become an extraordinary witness to current trends and modes of production. The photographer is in fact always a hybrid, as Latour would put it, a partly human and partly non-human actor who owes his/her abilities (and therefore also his/her way of seeing the world) to the relationship with one or more objects;
  • The discourses on photography, in different realms and perspectives: from magazines to blogs, from exhibitions to YouTube tutorials and advertising, as well as any other cultural product that plays a role in the construction of the imaginary of the contemporary photographer;
  • The discourses of photography, which obviously include all the aspects linked to its aesthetics and transformation, the styles and how they emerged, and also to the way in which photographic images are used, for example in newspapers, but also on social networks such as Facebook or Instagram;
  • Issues related to the fruition of the photographic text, to its continuous re-mediation and translation, as well as to the different ways in which it is exhibited and displayed. Particularly interesting are the processes of re-mediation linked to physical installations, such as photographic museums, temporary exhibitions, installations, performances, the websites of some artists etc.
  • Of particular interest, at least in the field of semiotics, is the relationship between passion and photography, not only as far as photography can be considered a passion itself, but also as far as it effectively elicits feelings and passions.

The Editorial Board invites interested scholars to send an abstract with a proposal of contribution of 2000 characters (500 words) in English, French, Italian, Spanish (please a short bibliography attached) by the 15th of September 2021 to the following addresses: dario.mangano@unipa.it / cartesemiotiche@gmail.com

Contributions in Italian, English, French, Spanish

Summary

Abstract length: max. 2000 characters including spaces (about 500 words)

The abstract must contain the indications of a minimum bibliography of reference

Articles length: max. 40,000 characters including spaces (about 8000 words)

Images: b/w in body text and color in separate file (jpeg, png, resolution at least 1500 pixels on the largest side)

Abstract submission deadline: (15 SEPTEMBER 2021)

Date of communication acceptance of proposals: (SEPTEMBER 30, 2021) Deadline for delivery of selected contributions: (JANUARY 15, 2022) End of review process: (MARCH 15, 2022)

Expected release date of the volume: (MAY 2022)


Carte Semiotiche est une revue internationale et interdisciplinaire de sémiotique et théorie des images dédiée à l’exploration des modes de production de sens des objets visuels. La revue se veut un lieu de réflexion pour accueillir et encourager une pluralité des points de vue sur la dimension visuelle et sensible des langages et des objets culturels. Ses volumes monographiques annuels développent chacun un focus théorique ouvert à différentes approches. Carte Semiotiche privilégie l’orientation vers le texte visuel et la dimension analytique de la recherche, dans la conviction que l’analyse textuelle est un outil irremplaçable pour la comparaison entre différentes approches disciplinaires, ainsi que pour une élaboration théorique efficace qui respecte la singularité et la densité sémantique des objets.

PHOTOGRAPHIE ANALOGIQUE ET NUMÉRIQUE : UNE REVUE

édité par Dario Mangano

Lorsque la photographie numérique a commencé à s’affirmer, le débat autour de cette soi-disant révolution, tant en sémiotique qu’en dehors de ce champ disciplinaire, a immédiatement pris une tournure très précise, en se concentrant presque exclusivement sur un aspect : le problème de la reproduction de la réalité, et donc du référent (Dubois 1983, Marra 2006, Ritchin 2009, Scheffer 2006, Smargiassi 2015). Pour de nombreux commentateurs, ce qui était dramatiquement remis en question, c’était la valeur de l’image photographique, cette ” essence ” que Barthes, dans La chambre claire , avait reconnue dans le ” ça a été” que seule une reproduction photochimique semblait garantir. Remplacer l’électronique par la chimie, les bits par des granules de nitrate d’argent, aurait été la fin de la photographie en tant que témoignage et avec elle de la réalité, dissoute comme tout le reste dans le cyberespace. C’est du moins ce que prétendent les (nombreux) apocalyptiques, qui prédisent une fois de plus la mort d’un art.

Mais les choses ne se sont pas du tout passées comme cela. Non seulement la photographie est toujours là et, de fait, les images se multiplient de manière exponentielle, tout comme les appareils et les passionnés qui les achètent et les utilisent, mais le discours à son sujet est également en train de le faire, comme en témoigne l’énorme impulsion donnée à la production éditoriale ces dernières années, tant en ligne que hors ligne. En outre, on continue de croire (ou de ne pas croire) aux photographies, non pas par naïveté, mais plutôt en raison d’une compétence accrue pour discerner le faux (Bajac 2010, Gunthert 2016). Les retouches, les remaniements et les tromperies de toutes sortes sont démasqués beaucoup plus rapidement qu’aux débuts de la photographie, lorsque quelque fantaisiste , avec une simple double exposition, prétendait avoir la preuve de l’existence des fantômes – allant jusqu’à se moquer, semble-t-il, de nulle autre que la gentille épouse d’Abraham Lincoln.

Le traumatisme a donc été surmonté, mais le long processus d’auto-analyse nous a fait oublier qu’entre analogique et numérique, l’enjeu n’est pas du tout seulement celui de la nature du signe photographique et de son rapport avec le référent (Dondero 2020, Mangano 2018, Pezzini 2008), comme nous le montre cette réalité même qui semble indifférente à toute tentative de réduction. Quiconque s’intéresse à la photographie sait très bien que non seulement l’analogique n’a pas du tout disparu mais que, après une période de silence relatif, il est revenu revigoré par la comparaison avec le numérique qui, entre-temps, est devenu dominant. Quelques faits simples : en 2018, Kodak a relancé la production de l’Ektakrome, le célèbre film diapositive devenu une icône, annonçant à la fin de l’année suivante un +21% de l’ensemble du marché des films. Bien avant cela, un petit groupe de passionnés, à mi-chemin entre le mouvement Carbonaro et la secte religieuse, avait donné vie à la Société Lomographique, qui se proposait de révolutionner la manière de comprendre la photographie à partir du nom : lomographie au lieu de photographie. Un culte de l’analogique qui, à l’inévitable décalogue de commandements, associait un site web pas du tout analogique, bien équipé pour le commerce électronique de matériel low-fi et, évidemment, de films en tous genres, de préférence vintage et donc largement détériorés. Une entreprise de plusieurs centaines de millions de dollars qui avait réussi à capter un aspect fondamental de l’analogique, à savoir son esthétique basée sur l’imperfection (Chéroux 2003). Les photographies tremblantes, surexposées ou sous- exposées, les éclairs de lumière, les couleurs improbables, les prises de vue bizarres et toute la gamme d’erreurs typiques de l’ère photochimique que les cerveaux électroniques des appareils photo numériques avaient fait disparaître avec la méthode de l’ingénieur, pour une raison quelconque, étaient soudainement devenus intéressants (Mangano 2010). Et ils n’ont pas cessé de le faire jusqu’à aujourd’hui. Vintage ? Certes, mais pas exactement le même type de retour au passé auquel la mode nous a habitués (Panosetti, Pozzato 2013). Rien à voir avec l’actualisation du défilé qui est dépassé en un semestre par la nouvelle collection, car à l’expérience la lomographie en ont succédé beaucoup d’autre. Nous pensons à Polaroid, qui a repris la production de ses films à développement instantané et des équipements pour les utiliser (l’initiative a été appelée, non par hasard, Le projet Impossible), à l’habitude croissante d’imprimer des images, mais aussi à quelque chose de moins immédiat comme le design des appareils, surtout numériques, de moins en moins peuplés de boutons et d’écrans multifonctions et de plus en plus de cadrans, leviers, roues et interrupteurs qui renvoient à une gestualité elle aussi toute analogique (Mangano 2018). Sans parler de l’explosion des sites, des blogs et des pages sociales où l’on discute à l’envi de la culture analogique et numérique, ou des interminables tutoriels qui vous apprennent à faire ce qu’autrefois tout vrai passionné savait parfaitement faire : du chargement d’une pellicule au développement par soi- même.

Petit à petit, en somme, ce que l’on pouvait imaginer est devenu évident, à savoir que l’analogique et le numérique, même s’il s’agit de deux formes technologiques, sont deux formes sémiotiques, deux effets de sens, mais aussi, d’une certaine manière, deux langages qui, en tant que tels, sont traduisibles l’un dans l’autre. Si, d’une part, il est parfaitement possible de reproduire l’analogique avec une technologie numérique – pensons à tous les logiciels qui le simulent, altérant parfois les images, reproduisant parfois des gestes et des procédures comme le chargement de la “pellicule” ou le fait de devoir attendre qu’elle se développe -, d’autre part, la photographie analogique finit tôt ou tard par être numérisée, pour une ultime retouche dans Photoshop ou simplement pour être publiée sur Instagram. Ainsi, des modes de production complexes sont créés, pleins d’étapes, dans lesquels les technologies et les techniques sont entrelacées et dans lesquels ce qui est construit est finalement le sens de la photographie contemporaine. D’où la possibilité de revenir à la question analogique/ numérique d’un point de vue différent, qui laisse de côté toute évaluation ontologique de ce qu’est la photographie et articule plutôt une réflexion sur son fonctionnement réel.

C’est pourquoi nous attendons des contributions à ce volume une analyse des phénomènes liés au monde de la photographie. Des faits et des artefacts qui, si on les observe de près et avec la bonne attention, peuvent nous aider à comprendre les tensions qui l’agitent, auxquelles l’opposition analogique/numérique, proprement pensée dans une perspective sémiotique, semble offrir des possibilités d’articulation considérables. Des nombreux objets d’analyse sont envisageables en voici quelques-uns à titre d’exemple :

  • les appareils techniques tels que les caméras, les équipements d’impression et, en général, le vaste monde du matériel informatique, toujours en expansion, qui devient un témoin extraordinaire des tendances du progrès et des modes de production. Le photographe est en effet toujours un hybride, pour reprendre l’heureuse définition de Latour, un actant en partie humain et en partie non-humain qui doit ses capacités (et donc aussi sa façon de voir le monde) à sa relation avec un ou plusieurs objets
  • les discours sur la photographie, tenus dans les lieux les plus divers et selon les modalités les plus variées : des magazines aux blogs, des expositions aux tutoriels sur YouTube, en passant évidemment par la communication commerciale et la publicité, ainsi que tout autre produit culturel qui joue un rôle dans la construction de l’imaginaire du photographe contemporain.
  • les discours de la photographie, qui comprennent évidemment tous les aspects liés à l’esthétique, ou plutôt à l’esthétique et à sa transformation, aux styles qui ont été déterminés et à la manière dont ils ont émergé, mais aussi à la manière dont les images photographiques sont utilisées, par exemple dans les journaux, mais aussi sur les réseaux sociaux tels que Facebook ou Instagram.
  • les questions liées à l’aboutissement du texte photographique, à sa remédiation et à sa traduction continues, mais aussi aux différentes manières de l’exposer et de le présenter. Les processus de remédiation liés aux environnements physiques, liés aux musées de la photographie, aux expositions temporaires, aux installations, aux performances artistiques, etc. ainsi que les processus virtuels, comme c’est le cas sur les sites web de certains artistes, sont particulièrement intéressants.
  • d’un intérêt particulier, du moins dans le domaine sémiotique, semblent être également les phénomènes passionnels liés à la photographie qui, en plus d’être considérée comme une passion en soi, détermine continuellement des tensions et des sentiments.

La rédaction de Carte Semiotiche vous invite à envoyer vos propositions de contribution en italien, anglais, français ou espagnol (max. 2000 caractères espaces compris ou 500 mots) accompagnées d’un bref profil biographique (max. 10 lignes) avant le 15 Septembre 2021 à les adresses suivantes: dario.mangano@unipa.it / cartesemiotiche@gmail.com

Contributions en italien, anglais, français, espagnol

Longueur du résumé : max. 2000 caractères, espaces compris (environ 500 mots) Le résumé doit contenir les indications d’une bibliographie minimale de référence

Longueur des articles : 40 000 caractères maximum, espaces compris (environ 8 000 mots). Images : n/b dans le corps du texte et couleur dans des fichiers séparés (jpeg, png, résolution d’au moins 1500 pixels sur le plus grand côté)

Date limite de soumission des résumés : (15 SEPTEMBRE 2021)

Date de communication de l’acceptation des propositions : (30 SEPTEMBRE 2021) Date limite de remise des contributions sélectionnées : (15 JANVIER 2022)

Fin de la procédure de révision : (15 MARS 2022) Date de sortie prévue du volume : (MAI 2022)


Carte Semiotiche es una revista de Semiótica y Teoría de la imagen de carácter internacional e interdisciplinar, dedicada al estudio de las imágenes y sus modos de producción de sentido. La revista pretende ser un lugar de reflexión para acoger e incentivar la pluralidad de puntos de vista sobre la dimensión visual y sensible de los lenguajes y de los objetos culturales. En cada uno de sus volúmenes, esta publicación de carácter monográfico y frecuencia anual, desarrolla un enfoque teórico que implica distintas tradiciones académicas. La revista acepta aportaciones tanto de jóvenes investigadores como de expertos consolidados. Carte Semiotiche privilegia la orientación hacia el texto y la dimensión analítica de la investigación, con la convicción de que el análisis textual es el instrumento más útil para la colaboración entre enfoques disciplinares distintos, además de servir para construir una elaboración teórica eficaz y respetuosa con la singularidad y la densidad de aquellos objetos con los que se confronta.

FOTOGRAFÍA ANALÓGICA Y FOTORAFÍA DIGITAL: UNA RECONSIDERACIÓN

A cargo de Dario Mangano

Desde que la fotografía digital ha comenzado a afirmarse, el debate en torno a esta, considerada como una revolución, sea desde la semiótica, sea desde fuera de dicho ámbito disciplinar, ha adquirido rápidamente un cariz muy preciso, focalizándose casi exclusivamente en un solo aspecto: el problema de la reproducción de la realidad y, por tanto, del referente (Dubois 1983, Marra 2006, Ritchin 2009, Scheffer 2006, Smargiassi 2015). Para muchísimas voces, aquello que se sometía dramáticamente a discusión era el valor de la imagen fotográfica, aquella “esencia” que Barthes, en Cámara lúcida, reconoció en el “ha sido” que solo una reproducción fotoquímica parecía asegurar. La sustitución de la química por la electrónica, el bit por los gránulos de nitrato de argento, habría sido el fin de la fotografía como testimonio y, con ello, de la realidad, disuelta como todo lo demás en el ciberespacio. O, al menos, así lo sostuvieron (tantos) apocalípticos, preconizando entonces un retorno a la muerte del arte.

Las cosas, pese a todo, no han acabado así en absoluto. No solo la fotografía está todavía ahí, sino que, además, las imágenes tienden a multiplicarse exponencialmente junto a las cámaras fotográficas y a los apasionados que las compran y utilizan. También han proliferado los discursos que toman a la fotografía en consideración, como atestigua el enorme impulso de la producción editorial de estos últimos años, sea online, sea offline. Por otro lado, se sigue creyendo (o no) en la fotografía, no solo por la necia ingenuidad, sino por la creciente competencia en el discernimiento de lo falso (Bajac 2010, Gunthert 2016). Retoques, reelaboraciones y pretensiones de todo tipo se ven desenmascaradas más rápido de lo que sucedía en los albores de la fotografía, cuando cualquier fotógrafo, con una doble exposición, decía tener las pruebas de la existencia de fantasmas –llegando a dar gato por liebre, por lo que parece, a nadie menos que a la distinguida consorte de Abraham Lincoln.

Con el trauma superado y con los integrados contentos, en fin, el largo recorrido de autoanálisis nos ha hecho olvidar que entre lo analógico y lo digital la cuestión no se reduce ni mucho menos a la naturaleza del signo fotográfico, ni a su relación con el referente (Dondero 2020, Mangano 2018, Pezzini 2008), tal y como demuestra aquella realidad que parece seguir indiferente a toda tentativa de reducción. Quien quiera que se interese por la fotografía no solamente sabe perfectamente que lo analógico no ha desaparecido, sino que, tras un periodo de relativo silencio, ha regresado fortalecido tras la confrontación con lo digital que, entretanto, se ha convertido en la tendencia dominante. Unos pocos hechos: en 2018, Kodak ha reactivado la producción de la Ektakrome, la célebre e icónica película de diapositivas, anunciando al final del año siguiente un incremento del +21% sobre todo el mercado de las películas. Incluso antes de este acontecimiento, un pequeño grupito de apasionados, a medio camino entre la masonería y una secta religiosa, había dado vida a la Lomographic Society, que se propuso revolucionar el modo de entender la fotografía a partir del nombre: “lomografía” en lugar de “fotografía”. Se trata de una especie de culto al analógico que, inevitablemente, caía en la paradoja de alojar su decálogo de mandamientos en un para nada analógico sitio web, bien equipado con herramientas e-commerce, aparatos Lo-Fi y, obviamente, películas de toda clase, preferiblemente de época y, por tanto, notablemente deterioradas. Es este un negocio de cientos de millones de dólares que supo recoger un aspecto fundamental del analógico: su estética basada en la imperfección (Chéroux 2003). Encontramos así fotografías movidas, sobreexpuestas o subexpuestas, reflejos de luces, colores imposibles, encuadres extraños y todo un amplio muestrario de los típicos errores de la era fotoquímica que los cerebros electrónicos de las máquinas digitales habían hecho desaparecer con la metódica ingeniería y que, de pronto, se volvieron otra vez interesantes (Mangano 2010) y no habrían dejado de serlo hasta hoy. Vintage? Sí, pero no se trata exactamente del mismo tipo de retorno al pasado al que nos había acostumbrado la moda (Panosetti, Pozzato 2013). Tampoco tiene nada que ver con la actualización de las pasarelas, superadas por la nueva colección en el transcurso de cada semestre, porque al experimento de la moda lomográfica lo han seguido muchos otros similares. Pensemos en Polaroid, que ha vuelto a producir tanto sus películas de revelado instantáneo como las cámaras para usarlas (la iniciativa se llamó, no por casualidad, Impossible Project). Pensemos en el hábito creciente de imprimir las imágenes; pensemos también en algo menos inmediato como el diseño de cámaras fotográficas, sobre todo de las digitales, cada vez con menos botones y dispositivos multifunción pero con más asideros, mecanismos, ruedecillas e interruptores que reenvían a una gestualidad puramente analógica (Mangano 2018). Por no hablar de la explosión de páginas web, blogs y redes sociales en las que se discute a más no poder sobre cultura analógica y digital, o de los infinitos tutoriales que enseñan a hacer aquello que antes sabía hacer perfectamente cualquier diletante: desde cargar una película a revelarla por sí mismo.

En resumen, poco a poco se ha vuelto obvio aquello que se había podido suponer, es decir, que analógico y digital, en lugar de ser dos formas tecnológicas, son dos formas semióticas, dos efectos de sentido, pero también en cierto modo dos lenguajes que, como tales, se pueden traducir recíprocamente. Si por un lado es perfectamente posible reproducir lo analógico con una tecnología digital –pensemos en los software que lo simulan, ora alterando las imágenes, ora reproduciendo gestos y procedimientos como el cargar el carrete o la espera por el revelado–, de otra parte, la fotografía analógica termina, tarde o temprano, por ser digitalizada, con un último retoque de Photoshop o, simplemente, acabando publicada en Instagram. Se crean así modos de producción complejos, ricos en intercambios, en los que convergen tecnologías y técnicas en las cuales aquello que se construye es, bien pensado, el sentido del hacer fotográfico contemporáneo. Surge aquí la posibilidad de volver sobre la cuestión analógico/digital desde un punto de vista distinto, que deje a un lado toda valoración ontológica sobre el ser de la fotografía en pos de una reflexión sobre su funcionamiento concreto.

Por este motivo, lo que esperamos de las aportaciones a este número es que aborden el análisis de los fenómenos que tienen que ver con el mundo de la fotografía; hechos y artefactos que, observados de cerca y con la precisa atención, puedan ayudarnos a comprender las tensiones que los promueven y, desde donde la oposición analógico/digital, oportunamente pensada en clave semiótica, ofrezcan notables posibilidades de articulación. Podemos pensar en múltiples objetos de estudio. Entre otros y, a modo de ejemplo, los siguientes:

  • Dispositivos técnicos como cámaras fotográficas, dispositivos de impresión y, en general, el vasto campo del hardware, siempre en desarrollo, que se convierte en un testimonio extraordinario de las tendencias en curso y de los modos de producción. El fotógrafo es, en realidad, siempre un híbrido, por usar la afortunada definición de Latour, un actante en parte humano y en parte no-humano que debe su capacidad (y por tanto, también, su modo de ver el mundo) a la relación con uno o más objetos.
  • Los discursos sobre la fotografía, contenidos en los lugares más dispares y en los modos más diversos: desde las revistas a los blogs, desde las exposiciones a los tutoriales de YouTube, pasando obviamente por la comunicación comercial y por la publicidad, así como por todo tipo de productos culturales que desempeñen una función en la construcción del imaginario fotográfico contemporáneo.
  • Los discursos de la fotografía, que incluyen obviamente todos los aspectos ligados a la estética o, mejor dicho, a las estéticas y a sus transformaciones, a los estilos que han originado y al modo en el que estos emergen; aún en el modo en el que las imágenes fotográficas se usan, por ejemplo, en los periódicos, pero también en las redes sociales como Facebook e Instagram
  • Las cuestiones ligadas al uso del texto fotográfico, a su continua re-mediación y traducción; pero también a las distintas modalidades con las que se exhibe y expone. Con especial interés aparecen, en realidad, los procesos de remediación ligados a los montajes, sean físicos, ligados a los museos de fotografía, a exposiciones temporales, instalaciones, performance artísticas, etc.; sea virtuales, como sucede en los sitios web de algunos artistas.
  • Particularmente interesante para el campo semiótico parecen ser también los fenómenos pasionales ligados a la fotografía, que, más allá de ser considerada como una pasión por sí misma.

La redacción de Carte Semiotiche invita a enviar propuestas de aportaciones en italiano, inglés, francés o español (máx. 2000 caracteres con espacios incluidos, o 500 palabras), acompañadas de un breve perfil biográfico (máx. 10 líneas) antes del 15 de SEPTIEMBRE 2021 a las siguientes direcciones de correo electrónico: dario.mangano@gmail.com / cartesemiotiche@gmail.com.

Indicaciones operativas

Aportaciones en italiano, inglés, francés y español.

Extensión de los resúmenes: máximo 2.000 caracteres con espacios incluidos (500 palabras). Extensión de los artículos: máximo 40.000 caracteres con espacios incluidos (alrededor de 8.000 palabras).

Imágenes b/n en el cuerpo del texto y en color en un archivo separado (jpeg, png, resolución de al menos 1.500ppp).

Fecha límite de entrega de resúmenes: 15 de septiembre de 202

Fecha de comunicación de aceptación de las propuestas: 30 de septiembre de 2021 Fecha límite de entrega de las propuestas seleccionadas: 15 de enero de 2022

Fin del proceso de revisión: 15 de marzo de 2022

Fecha prevista para la publicación del número: mayo de 2022

Bibliografia di riferimento / key bibliography / bibliographie essentielle / bibliografía

Bajac Q., Dopo la fotografia, Contrasto, Roma 2011. Barthes R. La camera chiara, Einaudi, Torino 1980.

Basso Fossali P., Dondero M. G., Semiotica della fotografia, Guaraldi, Rimini 2006. Benjamin W., Breve storia della fotografia, Passigli, Firenze 2014.

Berger J., Capire una fotografia, Contrasto, Roma 2016.

Bourdieu P. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Firenze 1972. Brucculeri M. C., Mangano D., Ventura I., La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale. Atti del

XXXVIII Congresso AISS – Laboratori, Nuova Cultura, Roma 2011.

Brunet F., La naissance de l’idée de photographie, PUF, Paris 2012.

Bruno M. W., Cosenza G., Martino C., a cura di, Scatti del pensiero, Mimesis, Milano 2021. Calabrese O., Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano 1985.

Corrain L., a cura di, Semiotiche della pittura, Meltemi, Roma 2004.

Del Marco V., Pezzini I., a cura di, La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale, Nuova Cultura, Roma 2011.

Finocchi R., Perri A., No reflex, Graphofeel, Roma 2012. Fiorentino G., Il sogno dell’immagine, Meltemi, Roma 2019. Floch J. M., Forme dell’impronta, Meltemi, Roma 2018.

Flusser V., Per una filosofia della fotografia, Agorà, Torino 1987. Freund G., Fotografia e società, Einaudi, Torino 1976.

Guerri M., Parisi F., a cura, Filosofie della fotografia, Cortina, Milano 2013. Gunthert, A., L’immagine condivisa, Contrasto, Roma 2016.

Mangano, D., Che cos’è la semiotica della fotografia, Carocci, Roma 2018. Marra C., L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano 2006.

Marra C., a cura di, Le idee della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2001. Muzzarelli F., L’invenzione del fotografico, Einaudi, Torino 2014.

Pezzini I., Immagini quotidiane, Laterza, Roma-Bari 2008.

Pinotti A., Somaini A., a cura di, Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina, Milano 2009. Pozzato M. P., Foto di matrimonio e altri saggi, Bompiani, Milano 2004.

Ritchin F., Dopo la fotografia, Einaudi, Torino 2012.

Shapiro M., Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi, Roma 2002. Smargiassi, M., Un’autentica bugia, Contrasto, Roma 2015.

Sontag S., Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978.

Stoichita V., L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano 1998.

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